jueves, 11 de octubre de 2012

El pregonero de Uceda nº14

















































Esperando un resplandor.

Tal y como anda la situación política y económica en España, cuesta mucho diferenciar de dónde viene la CRISIS exactamente.
Nosotros como ciudadanos, y “gracias” a nuestra constitución, únicamente podemos participar en esta “Democracia” una vez cada cuatro años.
El resto del tiempo solo podemos enfadarnos, unos más participativos que otros, eso sí. Y con las últimas reformas legales, no tendremos mucho margen para participar muy “activamente”.
Me preocupa, como ciudadana y después como mujer, ver las encuestas de intención de voto, en la que cada cual se incrementa más y más la abstención. Como podemos abstenernos cuando cada “reforma” nos quita un derecho por el que luchó, y hasta pudo morir, algún antepasado nuestro. Cómo podemos faltar el respeto a toda esa generación que luchó por nuestro futuro, y peor aún, cómo podemos no luchar por el futuro de nuestros hijos y nietos.
Cómo es posible que escuche a una sola mujer en este país que diga la famosa frase: “para qué votar, si no me va a servir de nada”. Esas mujeres que murieron y fueron mal vistas por querer participar en la “Democracia”. Que no hace tanto tiempo en nuestro país una mujer no tenía derecho a reflejar en una urna un voto y una intención.
Obviamente vivimos una crisis económica devastadora, en la que es más importante proteger al que más tiene, que ayudar al que más lo necesita, pero es más preocupante que con la situación política actual en nuestro país, y en nuestros pueblos y ciudades, prefiramos abstenernos y castigar al que lo hace mal, con otro que sabemos que no lo va a hacer mejor.
Nadie debería pensar que votar es inútil, porque todos los votos cuentan, pero la única forma con la que podemos castigar al que lo hace mal, es votando, pero con cabeza y no solo con corazón, sino utilizando la información que nos bombardea a diario en Facebook, Twitter, blogs... No nos dejemos engañar por todo lo que nos cuentan, investiguemos, hablemos, debatamos, en definitiva, participemos. Porque nosotros tenemos el poder, cada cuatro años, pero lo tenemos, debemos aprovecharlo.
Espero que vuelva el resplandor del pueblo español, ese pueblo que es capaz de unirse, y no solo porque gane la roja.


Como un martillo en la pared.
Quién puede pensar que por pertenecer a un grupo de gobierno tiene el derecho de decir quién puede o no puede preguntar, incluso acudir a un lugar de reunión.
Quién tiene el derecho a realizar una gestión económica de un presupuesto de forma unilateral para un pueblo, y no debatirlo directamente con la ciudadanía que, no solamente va a disfrutar esa gestión, si no que contribuye económicamente con su sudor en ese presupuesto que se va a gestionar.
No puedo evitar preguntarme, si hay algún motivo oculto tras los comportamientos de algunos dirigentes políticos. No puedo creer que haya intención de ocultar nada, cuando siempre han intentado vendernos su transparencia. Pero podría suceder…
En pleno siglo XXI, qué dirigente político puede realizar un veto a una persona y también a la gente que le rodea. No puedo creer que la libertad sea en estos tiempos un lujo para nadie, pero podría suceder….Y la pena es que esta historia se repite en muchos pueblos en nuestro país… como un martillo en la pared.

Carmen Lourdes García
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CODICE SEGRETO


Fernando Maria Gutierrez  de la Barca intinse un pezzetto di pane nel caffelatte del mattino e diede un’occhiata all’orologio appeso alla parete della cucina. Fra diciassette minuti sarebbe stato pronto per uscire di casa e, dopo un percorso di soli sedici minuti, avrebbe varcato il cancello d’ingresso dell’Istituto di Pegno.
Ogni mattina, esclusa la domenica, alle sei e quarantacinque si alzava da letto, per la verità sempre con un certo rammarico, ed iniziava tutto il rito delle abluzioni, del radersi, del soffiarsi rumorosamente il naso, del bere il bicchiere d’acqua fresca che tanto contribuiva alla regolarità dell’intestino, dell’indossare l’abito da lavoro, quello che già da tempo era declassato da della festa, sopra una camicia che diversi giorni prima la donna a ore gli aveva lavato.
Una radiolina posta su di una mensola insieme al sale, al pepe, all’olio ed al peperoncino dava le ultime notizie di morti ammazzati e di rapine, miste a pubblicità di biscotti e di shampo per i capelli.

Quando uscì di casa erano passati solo 10 minuti anziché i diciassette programmati.
Con compiacimento si avviò. Passando davanti all’edicola dei giornali diede un’occhiata ai titoli dei quotidiani poi proseguì e raggiunse l’Istituto.

Fernando Maria Gutierrez de la Barca era un impiegato d’ordine che dall’età di 26 anni lavorava presso quella istituzione e da sei anni  compilava l’elenco degli oggetti  riposti negli appositi scaffali in attesa che venissero restituiti a coloro che li avevano affidati  in cambio di modeste cifre, ben più basse del valore intrinseco, o in attesa di essere portati nella sala delle aste.
Ogni giorno aggiornava le liste di quegli oggetti e ne indicava il valore presunto.
Era un incarico di fiducia e Fernando lo aveva otteuto dopo un paio d’anni passati prima come fattorino, poi come impiegato di sportello e finalmente come accompagnatore dell’incaricato alla cassaforte e controllore.
Gli oggetti portati in pegno erano nella maggior parte piccoli monili, collanine, braccialetti, orecchini, vecchie monete, perle, spesso anche di Maiorca, per i quali veniva dato un  corrispettivo in denaro liquido.
Vi erano anche pezzi di pregio, quadri d’autore, roba di antiquariato, collezioni rare eccetera, che però venivano custoditi  nelle sale sotterranee dove si trovava anche la cassaforte  che conteneva il contante  a disposizione per compensare le cose depositate o per tenere il denaro recuperato al momento dei riscatti.

Fernando aveva ottenuto quell’impiego anche grazie al nome che portava, un nome che quando egli aveva 14 anni era stato la sua disgrazia. Egli aveva appartenuto ad una famiglia assai nota e benestante e, forse per questo,  padre e madre erano stati uccisi nel momento culminante della guerra civile. Fernando si era salvato non si sa se per la sua giovane età o perché al momento rifugiatosi in un sottotetto ignorato dagli aguzzini delle bande rosse che intendevano eliminare la vecchia borghesia.
Una attempata sorella della madre, la zia Edvige, lo aveva accolto ed era  rimasta ad amministrare i beni della sua famiglia. Quale fosse il criterio usato nella amministrazione non fu mai chiarito, fatto sta che, alla  morte della zia, risultò essere stato dilapidato ogni patrimonio, quello del nipote e quello della zia stessa, patrimoni che non si seppe  a quanto inizialmente ammontassero.
La zia era una zitella briosa e godereccia, propensa a gettarsi fra le braccia di qualsiasi giovanotto  le facesse credere di essersi invaghito di lei, cosa a cui ella, a dispetto della sua età non più tenera, era sempre propensa a credere.
Fernando dunque si era ritrovato povero in canna ma con un nome di prestigio.
Su questo nome aveva contato per trovare un lavoro almeno dignitoso.
Gli studi erano stati da tempo interrotti e grandi pretese non poteva avere. L’Istituto di prestito su pegno rappresentava una sistemazione socialmente di tutto rispetto, anche se lo stipendio non era tale da consentirgli divagazioni, se non di fantasia.
E di fantasia Fernando Maria Gutierrez de la Barca ne aveva abbastanza.
La cameretta con uso di cucina e piccolo bagno che aveva trovato in affitto aveva il vantaggio di non essere cara e di non essere distante dal luogo del lavoro. Una unica finestra gli consentiva la visione di un quadrato di cielo e la poca luce che penetrava da un cortiletto contribuva in parte a soddisfare la necessità di illuminazione per poter leggere e cucinare.
La piccola radio rappresentava l’unico diversivo ad un tenore di vita attento ad ogni spesa e proibitivo per qualsiasi stravaganza.

Quando Fernando arrivò al cancello dell’Istituto si fece aprire dal guardiano di notte e si diresse al proprio tavolo da lavoro prima ancora di andare all’orologio  registratore dove  ogni dipendente, al momento dell’ingresso, doveva apporre la propria firma e premere l’apposita leva per stampare a lato l’ora ed i minuti.
Con occhio attento all’orario, Fernando fece in modo da compiere l’operazione della timbratura esattamente un minuto prima delle otto e trenta, ora ufficiale di inizio lavoro.
Questa dilazione gli permetteva di rimanere al suo tavolo circa sette minuti per una presenza non ufficializzata.
Un attento controllo con il suo orologio da taschino, una delle poche cose ereditate dal padre,  gli confermava il tempismo previsto.
Gli altri impiegati arrivavano un po’ trafelati esattamente alle otto e trenta o poco dopo.
Ogni minuto di ritardo aveva come conseguenza la detrazione dell’equivalente di mezz’ora dalla paga mensile, ma questo deterrente assai spesso non era sufficiente ad indurre i colleghi di Fernando ad una maggior sollecitudine mattutina.
Anche la sua puntualità aveva contribuito a fargli fare i salti di livello che da fattorino lo avevano portato ad accompagnatore dell’addetto alla cassaforte ed a controllore dei beni.
Come accompagnatore era stato scelto anche grazie alla serietà di cui col tempo aveva dato prova.

Egli era più alto del normale, con un colorito prossimo all’olivastro e capelli neri discriminati al centro.
Un naso appuntito ed una bocca con labbra carnose, insieme ad occhi tendenti al verde, lo rendevano gradito alle poche donne di sua conoscenza, un paio delle quali impiegate nell’Istituto.
Fernando non era insensibile alle loro attenzioni, ma era sempre rimasto attento a non compromettersi con implicazioni sentimentali, per le quali, del resto, non aveva mostrato mai troppa propensione.

L’Istituto era un vecchio edificio con spesse mura ed una distribuzione interna dei locali non molto razionale, ben lontana da concetti moderni di  praticità.
La parte destinata al pubblico era un grande atrio con un bancone all’estremità ed uno sportello a fianco dove un impiegato compilava una scheda riassuntiva degli oggetti che la gente consegnava. Costoro dovevano poi passare ad altro locale, più stretto, dove un’altra persona faceva una valutazione sulla base della descizione della scheda e, se l’interessato accettava, versava la somma risultante.
In seguito un fattorino prelevava gli oggetti, li consegnava ad una impiegata che attendeva l’arrivo della scheda, compilava una sintesi dell’operazione dando poi una sigla al tutto per distinguerlo da ogni altro, ed  infine mandava oggetti e copia della scheda al magazzino.
Se gli oggetti erano di particolare impegno o valore interveniva il direttore stesso ed  iniziava una trattativa privata il cui risultato dipendeva molto dall’importanza della persona che chiedeva il prestito e dalle ragioni per le quali il prestito veniva chiesto.
In qualche caso particolare erano i fattorini stessi che si recavano a casa del richiedente per prelevare ciò che questi intendeva consegnare all’Istituto.
Quando era prevista la consegna di una grossa somma, derivante dal pegno di oggetti di grande valore, il direttore chiedeva autorizzazione alla banca di appoggio e faceva richiesta delle somme di denaro necessarie al pagamento, oppure venivano emessi assegni corrispondenti, a seconda dell’esigenza del cliente.
La seconda impiegata aveva l’incarico della cura e della classificazione di ciò che veniva considerato di particolare valore.

In tutto i dipendenti dell’Istituto erano otto, il direttore, un addetto al ricevimento di pegni, un esperto per la valutazione, due dattilografe, l’incaricato ai controlli, cioè Fernando, e due fattorini.
L’addetto alla cassaforte era di solito il direttore stesso, a meno che questi, per suoi impegni diversi, cosa tuttavia assai rara, non incaricasse altri ad eseguire questa operazione.

Dunque, ogni giorno, poco dopo l’apertura dell’ufficio, il direttore e Fernando si recavano nel sotterraneo per aprire la cassaforte. In effetti, chi apriva materialmente la cassaforte era solo il direttore, il quale era giornalmente a conoscenza della combinazione da imporre affinchè il portellone potesse essere aperto, mentre Fernando rimaneva all’ingresso della stanza.
Chiunque invece poteva accedere ai locali dove era posta la cassaforte e altro materiale di valore, il quale ultimo rimaneva visibile ma chiuso oltre una cancellata con sbarre di ferro.
Fernando era perciò in grado di fare il controllo visivo degli oggetti di pregio, ma non accedere ad essi e nemmeno poteva aprire la cassaforte, la cui combinazione cambiava giornalmente secondo un programma automatico che ogni mattina metteva a disposizione del direttore i dati validi da quel momento al mattino successivo.
I nuovi dati erano prelevabili, stampigliati  all’interno della stessa cassaforte, aperta un’ultima volta con la vecchia combinazione, quella del giorno precedente. O del sabato precedente.
La combinazione del giorno precedente da quel momento, cioè dalla apertura del portellone,  non era più valida ed era ormai priva di valore.
In pratica, Fernando poteva prendere visione di questo insieme di caratteri e numeri, fino a quel momento  noti solo al direttore,  poiché il promemoria con la combinazione, ormai inutile, veniva cestinato.

Ed ecco che Fernando, modesto impiegatuccio senza troppe ambizioni, trovava per sé  un hobby duraturo grazie al quale occupava  ore della sua giornata, sia sul lavoro, sia a casa, nell’elencazione, nella catalogazione e nello studio delle combinazioni che giornalmente scadevano e venivano gettate. 
Egli le memorizzava, riservandosi di scriverle poi a casa sotto alle precedenti nel lungo elenco.
Nessuna di quelle combinazioni era più valida, erano tutte ed ognuna un insieme di caratteri privi di significato e privi di qualsiasi utilità.
Perché dunque dedicarsi ad una raccolta ed uno studio così assidui ed intensi?
Perché Fernando aveva la convinzione che si potesse, una volta scoperto il trucco, il meccanismo, la formula, l’algoritmo (ma questo termine allora non usava), prevedere le future serie di caratteri che il ventre della cassaforte avrebbe editato.
L’apertura estemporanea da parte sua di quello scatolone di ferro sarebbe stato un successo che lo abrebbe compensato di tutti gli sforzi fatti, in barba al lavoro di fior di ingegneri che avevano progettato quel marchingegno.
Non era sua intenzione appropriarsi del contenuto, non era posseduto da avidità per tutto quel denaro. Voleva solo dimostrare a sé stesso che poteva riuscirci.
Poi l’avrebbe richiusa.  Forse.
Ma si chiedeva se la tentazione sarebbe stata tanto forte da indurlo ad impossessarsi del contenuto.
I rischi che tale azione avrebbe comportato erano tali da dissuaderlo.
Il problema era: nel caso fosse riuscito nel suo intento di far scattare il sistema di serratura, pur non sottraendo nulla, avrebbe compromesso il programma di aperture successivo. Perché il solo momento in cui avrebbe potuto provare era al mattino, in quei pochi minuti di solitudine che da tempo stava sperimentando con l’anticipazione dell’entrata in ufficio. Se in quel momento fosse riuscito ad aprire quell’accidenti di portellone, sarebbe venuto a conoscere la combinazione successiva, dopo di che ogni altro tentativo fatto in seguito dal direttore, o chi per lui, sarebbe stato vano, e ciò avrebbe avuto conseguenze imprevedibili.
Una soluzione poteva essere quella di aprirla e lasciarla aperta , ma l’allarme sarebbe stato grosso ed immediato.
A quel punto le possibilità sarebbero state due.  La prima, segnalare subito di esser riusciti ad aprire la cassaforte con lo scopo di dimostrare la vulnerabilità del sistema, senza prelevare nulla e perciò dare una prova di onesta sagacia e interessamento al lavoro. La seconda, impossessarsi di quanto più possibile e sparire. Per sempre.
Questa seconda possibilità dipendeva sia dalla quantità di denaro che avrebbe potuto prelevare, sia da quanto grande fosse il rischio di essere trovato e quindi arrestato.
Inoltre, sparire col malloppo non era facile, il tempo disponibile per tutta l’operazione era minimo. Troppo poco. Né era possibile anticipare l’entrata in ufficio senza renderne consapevole la guardia.
Queste elucubrazioni ossessionavano le giornate di Fernando senza che  trovasse una soluzione.
Nel frattempo accumulava l’un dopo l’altro i dati delle combinazioni alla ricerca di un loro ciclo che ne mostrasse la ripetività o la prevedibilità.
La combinazione era costantemente formata da quattro lettere, poi due numeri ed infine altre due lettere.
Fernando le incolonnava e rimaneva a fissarle lunghe ore senza ricavarne un nesso, un barlume di ricorrenza, una successione logica.
Salvo per i numeri e per gli ultimi due caratteri.
Aveva notato che la serie dei numeri si ripeteva dopo un certo tempo, scalando però di una unità.
Così, se per esempio erano risultati validi per i giorni successivi, 12, 35,27,43, ecc. dopo un certo tempo si aveva 11, 34, 26, 42.  Ed inoltre si verificava la costante assenza di numeri fra lo zero e il nove, mentre al 10 succedeva un 99..
Era facile prevedere il prossimo numero se si aveva nozione della serie in corso.
Ed egli giornalmente verificava l’esattezza della previsione.
Gli ultimi due caratteri seguivano una regola affine a quella dei numeri e quindi non presentavano problemi.
Le prime quattro lettere invece non rivelavano alcuna ripetitività, né alcuna regola di programmazione.
Era su queste prime quattro lettere che Fernando si scontrava senza riuscire a trovare il bandolo.

Quando fu orario per la pausa del mezzogiorno, dopo che il direttore  ed un paio degli impiegati furono usciti, un fattorino chiuse la porta d’ingresso agli uffici ed il cancello esterno. Coloro che erano rimasti all’interno si apprestavano a consumare la colazione che si erano portati da casa riunendosi presso il bancone della sala di ricevimento.
Fernando, contrariamente alla sua abitudine di rimanere al suo tavolo da lavoro, andò con il suo panino e la sua bottiglietta di limonata ad unirsi agli altri.
Le due donne lo accolsero con un sorriso mentre i maschi della compagnia mostrarono indifferenza.
Rosamaria, la più anziana delle due, di qualche anno maggiore di Fernando, era sempre propensa a mettergli in evidenza le sue grazie.
L’altra, Evelin, benchè più giovane, rimaneva timidamente chiusa in sé stessa ed un poco in disparte. Portava i capelli tirati all’indietro, riuniti sulla nuca in una crocchia, occhiali da miope ed un grembiule attillato che non lasciava adito all’immaginazione.
E, tuttavia, chi avesse voluto soffermarsi a guardarla con maggiore attenzione avrebbe notato in lei tratti niente affatto brutti. Un diverso modo di acconciarsi e di vestirsi avrebbe fatto di lei una ragazza decisamente bella.
Ma Fernando preferì mostrare maggiore interesse per Rosamaria, la quale esibiva una capigliatura di colore tendente al rosso, chiaramente tinta, una discreta scollatura che mal copriva un seno prorompente, due fianchi piuttosto voluminosi e due gambe troppo sottili  data la sua corporatura.
Era però Rosamaria, delle due, quella dotata di maggior iniziativa e quella che egli maggiormente temeva potesse minacciarlo nel caso egli non avesse dimostrato di avere  le attenzioni che lei stessa sollecitava.
Gli altri due uomini presenti erano in disparte a discutere di sport e di caccia.
Quando a sera fu orario di fine lavoro, Fernando fece in modo di trovarsi dietro a Rosamaria così che, invece di un semplice saluto di cortesia, ebbe modo di proporle di accompagnarlo a prendere un caffè.
Aveva a lungo pensato di fare questo passo ed a lungo aveva tergiversato, nel timore che il gesto dovesse poi ripetersi troppo frequentemente con un sicuro aggravio di spesa.
Rosamaria accettò, fortunatamente a patto che una prossima volta fosse lei stessa a pagare la consumazione. Chiaramente ciò non poteva avvenire senza formale protesta da parte del cavaliere, ma certamente almeno qualche volta egli avrebbe permesso che fosse lei ad offrire.
       - Come no!  Siamo colleghi. – le aveva risposto Fernando con un sorrisetto di complicità che poteva essere interpretato in vari modi.
All’uscita dal bar compitamente si salutarono ed ognuno di loro prese per la sua strada.
Fernando provava la soddisfazione di chi ha iniziato una promettente operazione di copertura che avrebbe anche potuto essere lunga ed impegnativa, ma tranquillizzante.

Come previsto le cose andarono per le lunghe, con un caffè ogni sera, a volte pagato anche dalla donna, non senza qualche accenno di protesta da parte del compagno.
Fino a quando Rosamaria non manifestò la curiosità di sapere dove egli abitava e volle fare una passeggiata con lui fino alla sua casa.
-       Mi piacerebbe vedere dove vivi, pensando a te vorrei immaginarti nel tuo ambiente.-
La richiesta di Rosamaria rompeva un ghiaccio che a lei pareva esser durato fin troppo tempo.
Fernando però non aveva desiderato avere un approccio troppo ravvicinato con lei. Questo non rientrava nei suoi piani, e tuttavia sapeva che prima o poi sarebbe stato inevitabile.
Per il momento aggirò l’ostacolo con la scusa che non era preparato a ricevere visite e si vergognava dello stato in cui abitualmente si trovava il suo appartamentino da scapolo.
-       Sarà per un’altra volta. – convennero entrambi. Ma Rosamaria non accettò di buon grado
una ulteriore dilazione a quell’incontro che aveva sperato finalmente di realizzare.
Ancora una volta si salutarono dopo una breve passeggiata, con un certo imbarazzo.
Fernando si rendeva conto che non era più possibile tirare la corda e che la buona armonia poteva esser compromessa. Era pentito di aver accelerato i tempi, ma ormai poteva solo ritardare di qualche giorno una serata un poco più intima.
Rimaneva l’assillo di quei quattro caratteri iniziali che si ostinavano ad occultare la chiave del sistema.
Il desiderio  vivo di trovare la soluzione e la fiducia in sé stesso gli avevano fatto precorrere i tempi impegnandolo più del dovuto. Nel suo piano Rosamaria avrebbe avuto funzioni di copertura. Una sua testimonianza sarebbe stata utile per scagionarlo, giocando attentamente sugli orari e sulle presenze.
Mancavano ancora alcune cose essenziali. In primo luogo la soluzione dei quattro caratteri, secondariamente l’opportunità, poi ancora la creazione dell’alibi, che Rosamaria avrebbe dovuto avvalorare, ed infine la dipartita o il permanere, coi soldi o senza.
Troppe cose.
Dopo qualche giorno si rese conto di aver sbagliato tutto, ma una cosa era deciso a fare, risolvere il problema dei quattro caratteri. Senza questa soluzione tutto il resto era inutile, se invece fosse riuscito a superare l’ostacolo avrebbe potuto tranquillamente aspettare l’occasione e coglierla al volo quando si fosse presentata.

La sera in cui si decise a far salire Rosamaria nel suo alloggio volle che la donna ricevesse una pessima impressione della casa e quindi di lui.
Fin dalla notte prima aveva creato un disordine che mal si conciliava con la sua natura di persona metodica. Aveva anche lasciato aperti alcuni vasetti di salsa e di maionese e li aveva messi ben in vista sul davanzale della finestra, il letto era rimasto disfatto ed alcuni calzini scompagnati erano stati buttati su di una sdrucita poltrona foderata con una tela verde.
Entrato in casa, seguito da Rosamaria, finse di darsi da fare a togliere di mezzo dei vecchi giornali e nascondere i calzini, lasciando però il tempo affinchè la donna avesse una visione dello stato delle cose.
La conversazione non si elevò al di sopra delle solite banalità e soltanto quando lei si decise ad andare verso la porta, Fernando capì che lasciandola uscire in quel modo avrebbe sciupato tutto il lavoro portato avanti pazientemente fino a quel punto.
Allora, standole alle spalle, le mise le braccia attorno alla vita e l’attrasse a sé.
L’arrendevolezza di lei lo mise in imbarazzo, ma si fece forza e, destreggiandosi un poco, ottenne di farla rimanere altro tempo. Tempo rubato allo studio delle quattro lettere.

Fu soltanto dopo diversi giorni che si rese conto di aver trascurato un particolare.
Rimanendo in disparte dalla cassaforte e dal direttore che la maneggiava si era sempre preoccupato di prendere visione successivamente della combinazione inutilizzabile gettata nel cestino e mai aveva seguito i movimenti del direttore stesso. Forse anche questa accortezza non avrebbe portato a niente, ma valeva la pena prestare attenzione.
Notò allora che l’uomo iniziava a premere i pulsanti del tastierino prima ancora di togliere di tasca il foglio contenente la combinazione per copiare i caratteri. Dunque aveva memorizzato la serie di caratteri e solo a lavoro iniziato controllava la battitura.
Ciò accadeva quasi sempre.
Fernando era perplesso, tuttavia dedusse che memorizzare i primi quattro caratteri fosse facile e naturale, non però tutta la serie della combinazione.
Era indispensabile scoprire il mistero dei quattro caratteri se voleva agire alla prima occasione.  Era certo che nulla lo avrebbe indotto a rinunciare.
Doveva solo crearsi l’alibi e trovare il modo di trovarsi di fronte alla cassaforte al momento giusto.
E il denaro?
La cosa migliore era di aspettare che tutte queste variabili capitassero insieme, compresa quella di una somma considerevole in custodia.
Purtroppo Fernando non era  al corrente dell’entità delle somme depositate, tuttavia, da certi comportamenti sia del direttore, sia degli addetti della banca alla consegna, riteneva di poter capire se la quantità di denaro fosse considerevole o no.

Una sera uscì dall’ufficio all’ora di chiusura esatta, di tutta fretta. Aveva avvertito in precedenza Rosamaria che aveva urgenza di presentarsi ad un ufficio del comune  per una certa pratica e che non la avrebbe aspettata.
Corse invece a casa ed attese per un certo tempo, poi tornò all’Istituto, attese che il guardiano, che lo conosceva bene, nel corso della sua ispezione si trovasse sul retro dell’edificio e gli andò incontro di corsa, mostrando gran fretta. Gli spiegò rapidamente che aveva dimenticato un documento personale sul suo tavolo e che doveva recuperarlo prima che  chiudesse l’ufficio nel quale doveva portarlo.
Si fece dare la chiave d’ingresso e scappò verso la porta.
Non appena dentro fece rapidamente un calco della chiave con della pasta di argilla che si era portato appresso e subito, senza perder altro tempo, uscì per riconsegnare la chiave al guardiano.
A questo punto si trovava ad avere la chiave d’ingresso all’ufficio e quasi la chiave della cassaforte.
Il cancello esterno non era un problema perché veniva chiuso solo a sera tardi, quando il guardiano si ritirava all’interno della casa.

Da quel giorno passarono diversi mesi, tutta l’estate, fino all’inverno successivo. Quando l’oscurità della sera inizia nel tardo pomeriggio.
I rapporti con Rosamaria erano stati oculatamente rallentati senza lasciarli cadere completamente.
Un tran tran settimanale li coltivava ma non li incrementava, lasciandoli più sullo stanco che sull’attivo.
L’occasione d’oro non arrivava, pareva che tutto cospirasse per non concedere a Fernando alcuna possibilità, nemmeno di una prova.
Fino a  quando non fu opportuno e necessario riparare parti di intonaco degli uffici interni.

Ai muratori fu concesso di fare il loro lavoro stanza per stanza, così da non compromettere l’attività giornaliera dell’Istituto.
Fra gli attrezzi ed il materiale che essi avevano portato c’era un grosso contenitore, simile ad una botte, di polvere bianca, forse gesso, al quale i lavoranti attingevano avendo cura di non esaurirne mai il contenuto che veniva spesso riportato al colmo o quasi.
Quel contenitore attirò l’attenzione di Fernando.

Gli operai impiegavano circa un giorno per terminare una stanza, di quelle piccole, come la stanzetta dell’addetto alla valutazione, molto più tempo per i locali grandi.
A conti fatti il loro lavoro poteva durare una decina di giorni.
Non aveva alcuna idea di quanto denaro fosse custodito in cassaforte, ma sentiva di dover almeno provare.

La stanza di Evelin, attigua a quella del direttore, fu sgombrata per i lavori e la ragazza dovette trasferirsi in altro locale. Lei stessa scelse quella, abbastanza ampia, dove lavorava Fernando e vi fece collocare la sua scrivania, vincendo le resistenze di Rosamaria che voleva averla vicina.
Per un paio di giorni Evelin rimase buona buona al suo posto a maneggiare carte, poi, il terzo giorno:
-       Che ne dici di questa opera d’arte? questo mosaico? –
Si era avvicinata al tavolo di lavoro di Fernando e gli aveva posato davanti un foglietto di carta composto di tanti ritagli incollati sul retro con nastro adesivo trasparente.
Fernando ebbe un sussulto. Aveva riconosciuto uno dei  promemoria gettati dal direttore, raccolto da lui, poi ridotto a pezzi ed infine gettato nella spazzatura, dopo opportuna ricopiatura.
Il giovane assunse il più rapidamente possibile un’aria di indifferenza, poi chiese:
-       Cosa significa?
-       E’ proprio quello che volevo chiedere a te -    rispose Evelin -  è opera tua. –
Fernando rispose con fare annoiato che forse si trattava di qualche appunto inutile gettato nella spazzatura.
-       Di questi inutili appunti ne elimini uno al giorno. Strano, vero? –
Evelin, con il suo sguardo innocente lo fissava negli occhi ed attendeva  una risposta precisa, pronta a controbattere, pacatamente ma insistentemente.
Sembrava compiacersi nel metterlo a disagio.
Poi sparò: - Io conosco la combinazione delle prime quattro lettere. –
E se ne tornò al suo posto senza aggiunger altro.
Fernando, ammutolito ed imbarazzato, non seppe reagire e per il resto della giornata si finse immerso nel suo  lavoro, cercando in realtà nella sua mente un modo per giustificare quelli che, chiaramente, erano dubbi o supposizioni di Evelin.
A fine orario di lavoro Evelin, che null’altro aveva detto, si tolse ostentatamente il grembiule nero che sempre indossava, ripose gli occhiali e si aggiustò le calze sollevando la gonna, così facendo mise in mostra un poco di coscia ed un corpo insospettabilmente sinuoso. Infine lo salutò con uno smagliante sorriso.

Fernando si chiese se non aveva sbagliato tutto, sottovalutando quella ragazza apparentemente insignificante che si rivelava assai più accorta di quanto fino ad allora aveva lasciato credere ed anche più attraente di come aveva voluto apparire.
Aveva ritenuto Rosamaria pericolosa solo perché più ciarliera e sfacciata invece  era l’acqua cheta di Evelin quella dalla quale bisognava guardarsi.
Anzi, c’era poco da guardarsi, Evelin aveva capito tutto il suo gioco e intuito la sua ossessione.
Non restava che farsela alleata, almeno fino ad opera compiuta.
Tanto meglio se Evelin davvero conosceva il mistero dei primi quattro caratteri.
Ma Rosamaria poteva rimanere utile per l’alibi.

Passò una notte insonne chiedendosi che fare.

Fu Evelin a togliergli ogni dubbio.
-       Se sei giunto a capire come funzionano i caratteri successivi io ti posso dire cosa fare con i primi quattro. E’ una cosa che non arriverai mai a scoprire. Ma se le tue intenzioni sono quelle che penso, io non devo essere esclusa dal gioco.
Fernando non voleva vendersi così facilmente e a buon mercato. Cercò di tergiversare lasciando capire che si, che forse, che magari, che chissà.
Evelin non gli lasciò tempo.
-       Ora o mai più.
Il suo atteggiamento era assolutamente deciso.
-       Il contenuto è tale – proseguì - che vale la pena tentare. Non so quando ancora sarà così grosso.
-       Quanto grosso? -  chiese lui.
-       Molto.  -  poi tacque e non ci fu verso di farla tornare sull’argomento.
Solo verso la fine della giornata Fernando azzardò
-       Chi altri sa dei nostri pensieri?  -  poi si corresse -  delle nostre ipotesi?
Un sorrisetto, scuotendo la testa, sottolineò la risposta.
-       Chi altri mai potrebbe?
Evelin non aveva evidentemente gran stima dei suoi colleghi d’ufficio.  Forse neanche di Fernando che tanto facilmente aveva fatto trapelare il suo disegno.
La ragazza gli si avvicinò con decisione, gli prese la testa fra le mani e lo baciò sulla bocca.
-       Siamo soci, al 50 per cento. Io so la prima parte e tu la seconda.
-       Come hai potuto saperla? -  Chiese lui timidamente.
-       Io faccio da segretaria al capo e lui non ha avuto difficoltà a mettermi al corrente del segreto, anche perché senza la seconda parte non serve a nulla.
-       Se tu non me la dici continuerà a non servire a nulla.
Evelin si staccò da lui ed assunse un atteggiamento serio.
-       Anche se tu non mi dici la tua. E’ per questo che siamo soci. Ed è per questo che lo saremo sempre.
Dopo qualche tempo aggiunse:
-       Ed è per questo che i tuoi rapporti con Rosamaria devono cessare.
-       Rosamaria fa parte del piano.  -  si lasciò scappare Fernando.

Si sentiva incastrato, ma doveva riconoscere che la tanto sottovalutata Evelin, oltre ad essere un bel tronco di ragazza, era anche una gran furba.

All’età di 18 anni e fino quasi ai 20 Fernando Maria Gutierrez aveva prestato servizio sotto le armi e, per quanto non ne avesse approfittato più di un paio di volte, aveva imparato a farsi passare da ammalato facendosi aumentare la temperatura corporea artificialmente e provocando a sé stesso disturbi fisici vari.
Ora era venuto il momento di mettere in pratica qualcuno di quegli stratagemmi.
Nel pomeriggio, dopo aver attuato qualche pratica di quelle che gli ufficiali medici scoprivano benissimo ma che erano senz’altro ignote alla gente comune, andò dal direttore con il viso congestionato e chiese di potersi assentare per malattia. Ottenuto il permesso, si rivolse a Rosamaria per avvisarla dell’inconveniente.
Rosamaria si offerse di passare da casa sua per somministrargli qualche rimedio e per assicurarsi sul suo stato di salute.
Questo era esattamente ciò che Fernando voleva.
Quella notte doveva, notoriamente, essere a casa sua a letto con la febbre.
Il mattino dopo, come d’abitudine, si presentò all’ufficio con qualche minuto di anticipo ed attese con trepidazione l’arrivo, pure di qualche tempo anticipato di Evelin.
La ragazza battè i primi quattro numeri e Fernando i caratteri seguenti.
Il portellone si aprì e mise in evidenza la stampa della combinazione successiva.
Sveltamente i due la tolsero, gettarono in un sacco di plastica tutte le mazzette di denaro alle quali si trovarono di fronte, richiusero la cassaforte e infilarono il sacco sul fondo del barile pieno di gesso in polvere dei muratori.
Ciò fatto, entrarono nel bagno e si lavarono mani e braccia.
Proprio allora iniziavano ad arrivare gli altri impiegati.
Fernando ed Evelin si mescolarono tra loro e timbrarono il proprio cartellino.
Rosamaria vedendolo al lavoro lo rimproverò per non esser rimasto almeno quel giorno a letto ed il direttore pure gli chiese notizia del suo malessere.
Naturalmente, rispose che gli antipiretici assunti avevano fatto il loro effetto e che se l’era sentita di ritornare in ufficio. Avrebbe comunque avvisato se le cose fossero peggiorate.

Quando il direttore si presentò alla cassaforte per l’abituale operazione di apertura e prelievo della prossima combinazione, il sistema non funzionò. Il portellone rimase chiuso e non si mosse più malgrado vari successivi tentativi.
Non restava che fare una chiamata alla casa costruttrice per avere aiuto, ma, poiché si era di sabato, non se ne sarebbe parlato fino a lunedì, nel migliore dei casi.
L’inconveniente procurava qualche disguido, ma non allarme.
Di fronte allo scoramento del direttore che, dopo le varie prove, si dichiarava vinto, Fernando propose di continuare lui stesso a ripetere più e più volte l’operazione.
Il direttore acconsentì, senza molto crederci, ma con qualche speranza.
Poiché la situazione era tutta sotto controllo, venne dato a Fernando il foglio con scritta la combinazione.
Fernando mostrò di fare varie prove, senza risultato, poi a sera si dichiarò vinto e rinunciò a fare qualsiasi altro tentativo.

Ora si doveva prelevare il sacco di plastica, verificarne il contenuto, e, se del caso, scappare dove nessuno lo avrebbe più cercato.
La cosa migliore sarebbe stata quella di agire subito, intanto che nessun allarme era ancora stato dato, ma nei fine settimana due guardiani rimanevano all’interno dell’edificio dandosi il cambio ogni dozzina di ore.
Un altro pensiero tornava insistentemente nella mente di Fernando, come liberarsi di Evelin.
Quando egli si fosse eclissato, sempre che ne valesse la pena, sarebbe stato chiaro che il furto era stato compiuto da lui. Sarebbe andato lontano e avrebbe cambiato identità. Per tutto ciò aveva un piano, da tempo elaborato. Ma Evelin non aveva fatto nessuna fatica per la messa in atto dell’operazione, il mistero dei quattro caratteri lo aveva appreso dal suo capo e lo studio dei successivi era stato tutto lavoro suo, di Fernando. Evelin aveva giocato solo con astuzia e col mettere in mostra un poco di coscia. Troppo poco per potersi considerare una partner.
Nel frattempo, per il momento, era necessario mantenere la calma ed attendere il momento propizio per uscire con il sacco.
Fra un paio di giorni sarebbe scoppiato l’inferno. Fernando si propose di collaborare alle indagini, per quanto nelle sue possibilità.

Per i tecnici fu molto laborioso ottenere la riapertura del portellone e a nessuno fu dato capire come la ottennero.
Certo è che alla notizia che l’interno era vuoto il direttore trasecolò e tutti gli altri si preoccuparono.
Giunsero subito investigatori della polizia e funzionari della banca di appoggio.
Ed iniziarono gli interrogatori  e gli esami ambientali.
Coloro che più di ogni altro vennero tartassati furono i due guardiani ed i muratori, ma anche il direttore fu sospettato e spremuto. Gli impiegati dovettero soltanto spiegare particolareggiatamente le corcostanze e ciò che avvenne in quel paio di giorni in cui si ebbe la mancata apertura della cassaforte.
I locali furono esaminati uno ad uno alla ricerca di indizi del pasaggio di estranei, senza risultato.
Intanto il lavoro era ripreso, ma la cassaforte era rimasta aperta e vuota, a disposizione della polizia e dei tecnici della casa costruttrice. Il denaro per le operazioni correnti veniva prelevato dalla banca nelle quantità strettamente necessarie e, quanto agli impiegati, fu loro chiesto di rimanere a disposizione per qualsiasi chiarimento.

Fernando teneva d’occhio il barile del gesso ed ogni volta che qualcuno gli si avvicinava sentiva il cuore cambiare ritmo ed accelerare il battito. Anche quando ad avvicinarsi era Evelin.
I due, ora che la ragazza era tornata nel suo ufficio, non mostrarono mai di avere qualsiasi rapporto fra loro e continuarono ad ignorarsi, con sollievo di Rosamaria.
Fernando, come appunto aveva predisposto, risultò quella notte essere assente dall’Istituto fin dal pomeriggio. Rosamaria asserì di averlo visto a letto febbricitante.

I guardiani furono sostituiti ed ai muratori fu imposto di interrompere il lavoro, per un tempo indeterminato.
Essi dunque si apprestarono a ricaricare tutta la loro roba sul camioncino che li serviva ed andarsene.
Nello stesso momento Fernando si preparò una pallottola di carta velina e se la mise a lato della bocca, fra la gengiva e la guancia, passò da Rosamaria per dirle che un ascesso ad un dente lo costringeva ad andare subito dal dentista, evitò di incontrare Evelin ed uscì prima che i muratori se ne andassero definitivamente.
Quando fu fuori, dopo essersi accertato che il barile fosse caricato sul mezzo, si avvicinò loro e propose, anche per limitare la perdita di fatturato, di fare un lavoretto come quello fatto nell’Istituto in altro luogo. Purchè fosse subito.
I muratori accettarono e Fernando li guidò alla sua casa facendo loro scaricare tutto il materiale in cantina. Poi gli diede appuntamento per il giorno successivo al momento della pausa pranzo per le indicazioni necessarie.
Ciò fatto, corse ad una agenzia di viaggi e prenotò un volo per le Canarie per la mattina dopo, a nome Manuel Torrealba, riservandosi di pagare al momento di fare l’accettazione in aeroporto.
Sempre di gran fretta si recò in un negozio di valigeria e comprò un bauletto particolarmente robusto ed una borsa da viaggio da portare a tracolla. Se li fece mandare a casa subito e là accorse ad attenderli.

Il suo programma, da tempo delineato stava realizzandosi.
Un commilitone col quale aveva stretto una intima amicizia era Francisco Ugarte, un canario che di mestiere faceva il contrabbandiere, il baro ed il truffatore. Con costui aveva mantenuto un rapporto epistolare regolare e, ultimamente, gli aveva chiesto, non appena Fernando fosse arrivato nelle isole, di cambiargli identità, e di fargli ottenere documenti falsi.
Una volta in possesso di un passaporto al suo nuovo nome, si sarebbe fatto portare, sempre con l’aiuto di Francisco, in Costa d’Avorio o in Liberia, o altrove, dove non ci fosse l’estradizione.
Là sarebbe diventato il Mister “bianco”, con tutti i vantaggi che ciò comporta in un paese di negri.

Passò la notte a rimirare le mazzette confezionate di pezzi da cento valutandone la consistenza, sia come spessore che come quantità, con grande soddisfazione. Tolse alcuni biglietti e  li mise nel portafoglio mentre qualche mazzetta la ripose nella borsa da viaggio. Il  resto fu collocato sul fondo del bauletto e coperto con camicie ed effetti personali.
La mattina seguente, con una certa ansia, attese fino alle nove e trenta, poi scese a fermare un taxi, vi caricò il bauletto e, borsa a tracolla, si fece portare all’aeroporto.
Guardandosi attorno alquanto timoroso, si avviò all’accettazione, consegnò il bauletto e pagò per il volo, poi raggiunse la porta di uscita che l’addetto gli aveva indicato e, dopo aver acquistato un giornale si mise proprio vicino alla porta col giornale aperto immerso in una lettura che serviva più a proteggerlo da sguardi indiscreti che ad acquisire notizie.
Non appena il gate fu aperto si infilò nel corridoio, consegnò il biglietto e rapido andò a sedersi nel sedile di classe turistica che una hostess gli aveva indicato.
Continuò a tenersi coperto il più possibile con il giornale e rimase in ansia fino a decollo avvenuto.
Quando era già in volo cercò di dare una rapida occhiata in giro per vedere chi fossero gli altri passeggeri. Nessun viso pareva noto e perciò si tranquillizzò, aggiustandosi meglio nella sua poltrona.

Fernando in una sola occasione aveva volato, quando era militare, ma tante volte al cinema aveva visto come ogni cosa si svolgeva e pertanto aveva fatto tutte le operazioni con una certa sicurezza.
La classe turistica gli era stata data in quanto non aveva esplicitamente chiesto diversamente e forse nemmeno sapeva che ci fosse anche una prima classe.
Da qualche tempo si trovava sull’Atlantico quando la voce dell’altoparlante lo fece sussultare.
Una voce femminile stava dicendo che il signor Fernando Gutierrez era atteso in prima classe.
Non diede subito segno di aver ricevuto il messaggio. Prima pensò ad una omonimia, poi si chiese come era possibile che qualcuno lo avesse riconosciuto.
Ansiosamente, rimase fermo al suo posto.
Dopo qualche minuto la voce ripetè il messaggio.
Nessun’altro si era alzato, perciò Fernando Gutierrez doveva essere proprio lui.
Non poteva fingere più a lungo che ciò non fosse.
Fece cenno alla hostess che appunto passava a chiedere di Fernando Gutierrez e le disse che quel signore era un suo amico che non aveva potuto arrivare in tempo all’aeroporto, chiedendole inoltre chi lo stava cercando.
-       Una persona in prima classe ha chiesto del signor Fernando Gutierrez, vada lei, se vuole,  a spiegare come stanno le cose –
Fernando si alzò, titubante, e si diresse verso la porta che la hostess gli aveva indicato.
In prima classe vi erano poltrone più ampie con un tavolino a servizio di ogni due. Il giovane percorse tutto il corridoio senza notare nessuno di sua conoscenza, poi tornò indietro e, solo allora, si accorse di una ragazza bionda platino, con occhiali da sole, assai sofisticata che, a gambe accavallate e sottana sopra al ginocchio, lo fissava con un sorrisetto appena accennato.
Fernando si fermò, come paralizzato.
-       Evelin -  sussurrò.
-       Già, il nostro Fernando se ne va in vacanza tutto solo, senza salutare gli amici  -  il sorrisetto
rimaneva a fior di labbra.  -  Siediti  - proseguì
Fernando si sedette a lato rimuginando sul cosa dire. Evelin fermò una hostess e chiese due coppe di champagne.
-       Bevi  -  gli disse quando le coppe furono servite -  ti farà riprendere un poco di colore  -
Fernando si sentiva come un ragazzino scoperto a rubare la marmellata.
Solo che questa volta la marmellata era piuttosto consistente.
Ci fu un lungo silenzio.
Poi Fernando chiese:
-       Ora mi puoi dire come era il mistero dei quattro caratteri
-       Non c’è nessun mistero  -  rispose lei con fare annoiato  -  prima della combinazione vera e propria bisogna battere quattro caratteri qualsiasi. -  poi proseguì  -  bastava chiederlo, il direttore lo avrebbe detto anche a te.